Cosa vuoi fare da grande: una domanda a cui avrei voluto non saper rispondere

Cosa vuoi fare da grande?” è una domanda che ci è stata posta a tutti quando eravamo bambini. Una domanda che è un passaggio inevitabile. Tutti noi ci siamo dovuti confrontare con questo difficile quesito. Se da bambini ognuno di noi rispondeva in maniera fantasiosa, il classicone dell’astronauta, del calciatore o della ballerina, da adolescenti le cose cambiavano.

Sono tornato a riflettere su questo tema ascoltando Cosa faremo da grandi di Lucio Corsi. Trovo che la canzone sia bellissima, ma trovo soprattutto che nasconda una consapevolezza a tratti rivoluzionaria: ma quanto sarebbe bello non sapere mai cosa faremo da grandi?

“Cosa faremo da grandi”

La canzone del cantautore maremmano è estratta dall’omonimo album, e nel ritornello dice: “nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi”; ed eccola qui la frase che mi ha dato da riflettere. Ma di preciso, cosa vuol dire questa frase ossimorica? Ce lo spiegano i versi che anticipano il ritornello.

Nel primo caso siamo di fronte a un uomo dell’Isola d’Elba, che ha dedicato la vita a creare a mano le conchiglie, che “c’ha lavorato una vita e poi, s’è stufato e le ha tirate per terra”.
Nel secondo caso, una donna dell’Isola del Giglio, che nella vita si è occupata di dipingere di bianco le barche, che “senza nemmeno festeggiare la fine, ha deciso di tornare all’inizio”.

Il senso di questi versi appare chiaro: un’attività non deve necessariamente occuparci tutta la vita, possiamo anche decidere di buttare tutto per terra, di non arrivare alla fine, e di ripartire con qualcosa di nuovo.

Ma in quanti di noi avrebbero il coraggio di ripartire da zero e rimettersi totalmente in discussione? Ma soprattutto, siamo stati educati a pensare che tutto si possa rimettere in discussione?

Fabrizio, cosa vuoi fare da grande?

Scavando nei miei ricordi, quando mi chiedevano “Cosa vuoi fare da grande?” rispondevo, inizialmente, il cuoco; col tempo ho iniziato a rispondere “il ragioniere”. In questo secondo caso, ovviamente, non erano parole mie, ma frutto del condizionamento di mia madre. A 10 anni, cosa potevo sapere cosa volesse dire “fare il ragioniere”? Mia madre, memore dell’esempio della sorella, diplomata ragioniera con il massimo dei voti e subito occupata, sognava per me la stessa carriera. Una dinamica classica tra genitori e figli.

Io poi, ragioniere lo sono diventato davvero (almeno per il diploma). Mi sono iscritto all’Istituto Tecnico Commerciale, e l’Economia Aziendale, materia cardine del ragioniere, era anche la mia preferita. Iniziate le superiori, volevo diplomarmi e fare davvero il ragioniere come professione. Arrivato al quinto anno, ho scelto di proseguire con l’Università, ho scelto Economia Aziendale: volevo fare il commercialista.

Lo sono diventato? Assolutamente no. Ora faccio il Responsabile Marketing.

Non che la contabilità e l’Economia Aziendale non mi piacciano più, semplicemente ho capito che non potevano essere il mio lavoro. Così, durante la triennale, ho “incontrato” il marketing: mi è piaciuto, ho pensato potesse essere il mio lavoro. Allora ho proseguito con la laurea magistrale in Marketing e Ricerche di Mercato.

Ho scritto questo pippone, non perché penso che a voi freghi qualcosa di cosa volevo fare da grande, ma per arrivare a un punto cruciale.

Ma io, e voi, a 14 anni quando si scelgono le superiori, e a 19 quando si sceglie l’Università, come facevamo a sapere cosa avremmo voluto fare da grandi?

Scegliere l’incognita del proprio futuro

Io ho scelto di fare ragioneria su pressione di mia madre, mi è andata bene e dal mio percorso c’ho tirato fuori un lavoro che mi piace e che oggi mi soddisfa. Ma a 14 anni cosa ne sappiamo del futuro? Eppure uno deve fare delle scelte, è difficile stare fermi senza fare nulla: si prende una decisione e ognuno si assume il rischio di sbagliare, di andare fuori rotta.

Ed è qui che torniamo a quanto dicevo sopra: siamo educati al cambiamento? Siamo educati ad accettare di aver sbagliato? Siamo pronti a rimetterci in gioco e in discussione?

Se mi faccio questa domanda, le prime cose che mi vengono in mente sono i colleghi studenti universitari, seduti in aula durante il corso di Economia Aziendale I, finiti lì per non si sa per quale motivo. Perché se uno è laureato in Economia poi lavora, perché per mamma e papà appendere in casa una laurea in Economia fa figo e li rende orgogliosi, o perché “non sapevo cosa scegliere e allora sono venuto qui perché è a numero aperto”.

Questo ovviamente non succedeva (e succede) solo nel corso di laurea da me scelto, è la norma in tantissime occasioni. Spesso tutto questo si traduceva in due cose: studenti fuori corso perenni e mai laureati, oppure studenti laureati per senso del dovere ma tremendamente infelici.

Rifaccio la domanda: siamo educati a rimetterci in gioco? La risposta, a mio avviso, è no.

Cambio tutto, cambio vita

Le mie percezioni non hanno valenza statistica e sono solo frutto del mio sentire, però, a mio avviso, siamo educati a mantenere lo status quo a costo dell’infelicità. Io ho l’impressione di essere circondato da persone che puntano alla stabilità, che puntano a prendere una decisione che sia valevole per la vita e che li tenga fermi lì al sicuro.

Peccato che questo ragionamento nasconda una grossa insidia: la vita non è sempre uguale, è di per sé e per sua natura mutevole. Allora come può una decisione essere valevole per lungo tempo?

Mi rendo conto, io in primis, di essere schiavo e succube di questa logica. Ho cambiato tre lavori in quattro anni, ma l’ho fatto con immenso terrore e immensa fatica. E se domani mi rendessi conto che il marketing non è più la mia strada, io sarei in grado di rimettermi in discussione e cambiare? Io ho paura di no.

Io sono un appassionato di circo e spesse volte ho sentito parlare di persone che, prese dalla passione per quel mestiere o per amore, hanno lasciato la loro vita stabile e sono diventate nomadi andando a lavorare proprio in un circo. Ricordo la storia di una bancaria che, lasciato il suo impiego, era diventata una trapezista per inseguire l’amore.

Sono storie da romanzo, ma sono storie vere che dovrebbero ispirarci.

Conclusioni

Ecco, proprio perché temo che io non sarei in grado di mettermi in gioco con qualcosa di nuovo, mi voglio augurare una cosa: non voglio sapere cosa farò da grande, spero di godermi quello che faccio fino a quando mi farà stare bene, fino a quando mi renderà soddisfatto della mia vita, fino a quando potrò entrare in ufficio sentendo di avere lucidità e idee per fare bene il mio lavoro.

Che poi, “grandi”, cosa vuol dire? Io oggi sono il “piccolo” del “grande” di domani. Sono solo concetti relativi che, rapportati a momenti diversi, cambiano di significato. E allora sì, forse è vero: “nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi”.

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